Per i francesi Raton per noi Merdonedda
Chi ha avuto la fortuna di vivere la Cagliari degli anni Cinquanta come me ricorderà con nostalgia alcuni personaggi noti per il soprannome piuttosto che per i connotati anagrafici.
Fill’e preri, mitico strillone che vendeva «l’gnone» e il «Corriere di sera» sotto i portici di via Roma.
Nandino, jukebox umano che in cambio di una sigaretta religiosamente riposta in una scatolina di alluminio rallegrava gli animi con un inno all’amore delicato e stringato: «io amo te, tu ami me, ci amiamo tutti e tre, biddio!».
Eleonora S’ingannara e Gina Pompetta, sfortunate donne, non proprio avvenenti che – per dirla alla De André – avevano consumato «l’amore sacro e l’amor profano» negli anni successivi alla distruzione del ‘43 con le milizie americane prodighe di sigarette, cioccolato e chewing-gum senza mai essere perdonate dalla classe più bigotta della città.
Personalmente, allievo delle medie della mitica media Giovanni Spano, ricordo due personaggi molto noti nella centralissima via Manno a Cagliari:
Carirari e buon cuore e Merdonedda.
Il primo lo si incontrava seduto all’angolo con la via Mazzini, dove a precisi orari veniva accompagnato da un congiunto, sistemato su un carretto con le ruote che ne nascondeva le gambe e lasciato lì per ore a mendicare pochi spicci dai passanti.
L’altro, più noto come Merdonedda, vendeva articoli musicali e dischi di vinile nel primo tratto dell’arteria, proprio di fronte alla gioielleria Cillocco, apice della salita in cui avevamo conosciuto l’ultimo arrancare dei tram su binari prima e dei filobus verdi poi. Senza mai perderci una sfilata degli studenti universitari con in testa il loro Pontefice Massimo ricoperto da kilometri di carta igienica.
Cosa c’entra il mitico Merdonedda in questi appunti successivi di mezzo secolo alla sua scomparsa? Semplice. Pochi giorni fa, durante una riunione in un ufficio pubblico molto importante, un collega nell’indicarmi la funzionaria che con diligenza e modestia aveva iniziato il suo intervento, mi ha detto: «Merdonedda ha avuto una progenie».
«Abbiamo scoperto un fossile vivente». Altro che «Sardegna quasi un continente». «Questa pare un topo appena uscito dalla fogna e le caratteristiche somatiche riportano a lui. Secondo me se non è la figlia é quantomeno la nipote del Mitico».
In effetti, odore sgradevole a parte, la sua apparizione, nel contesto e nel discorso, appariva molto simile a quella che si può annotare nel comportamento delle nutrie quando escono dal canale di Mammarranca. Timide, impacciate ma curiose. Alla nostra Merdonedda del Terzo millennio non mancava niente per essere degna dell’investitura sul campo.
Topo d’archivio ante litteram. Assidua migrante di uffici, dove non ha mai trovato la tana ideale. Particolarmente allineata alle regole della colonia di ultima appartenenza , dove le pantegane adulte determinano la gerarchia e l’obbedienza e impongono il dovere di morire quando entra in gioco la sopravvivenza della specie. Nella nostra circostanza la specie dei colletti bianchi fetenti. Nonostante la seduta non fosse certo da ricordare per la stupidità emersa a causa della stolta insipienza della nostra merdona terrestre, mi rimarrà impressa nella mente e nel cuore.
Per avermi ricordato l’infanzia e una strada in cui tutto è ormai chiuso dentro il baule dei ricordi. Come la UPIM dove poi sorse Castangia abbigliamento. O l’atelier di Salfer, del compianto Sindaco Salvatore Ferrara, di fronte a Larco Varese, davanti al quale, noi discoli cantavamo, ginocchia a terra, il «Salve Regina» per ironizzare su una vicenda pruriginosa dell’epoca.
Oppure il miracolo che rimise in piedi il povero Carirai e buon cuore, con quattro petardi inseriti dai soliti balordi nella cassetta delle offerte. Insomma, spaccati di vita scolpiti nella memoria e che il giorno sono tornati ad animarsi grazie alla comparsa sulla scena di tale figura sorcesca meritevole della investitura di Merdonedda ad honorem. Almeno fintanto che con petardi e castagnole i soliti ignoti non la obbligheranno alla fuga dagli ultimi anfratti paludosi di Santa Igia verso quartieri meno ricchi di anfratti e caverne, sorti dopo anni di derattizzazione delle aree confinanti uno dei quali ribattezzato con un nomignolo accattivante dai gabilloni: San Tropez. In vernacolo. Saint Tropez in lingua transalpina.
Solo per allineare is merdonas ai più nobili raton francesi. D’altronde la classe non è acqua. Parbleu!